9 novembre 2013

Il 14 Novembre nelle sale cinematografiche verrà proiettato il film sulla vita di Steve Jobs. Nel trailer c'era una frase molto ad effetto: "...perché solo coloro che sono talmente folli da pensare di cambiare il mondo, alla fine lo cambiano per davvero"!


Penso che sia indiscutibile il fatto che realmente l'ingegnere di Cupertino lo abbia cambiato. Io stesso sto scrivendo questo post per mezzo di un'interfaccia grafica. 
Così, per analogia, ho pensato ad un altro uomo che a suo modo ha cambiato la storia dell'umanità, legando al suo nome duemila anni di storia! 



In suo nome sono state fatte azioni magnificenti, ma ma anche guerre atroci e ingiustificate. Eppure, non si può dire che sia stato un vincitore al pari di Jobs. Il Nazareno, in realtà, è nato "perdente" sin dalle origini estremamente umili, essendo figlio di un falegname, vestendo di stracci e senza avere, forse, la minima volontà di cambiare realmente il mondo. Celeberrima è rimasta, appunto, la sua frase: "A Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio", perché, secondo la Bibbia, egli era venuto per gli "sconfitti, i lebbrosi e tutti gli Ultimi". Morì odiato, ma fino alla fine si fece portavoce di un sentimento, molto spesso dimenticato: "il perdono"! 
Cristo e Jobs, due nomi diversi, tanto diversi...eppure entrambi hanno imposto una direzione ai loro tempi.
Forse quella di Cristo era un'idiozia: come può un uomo adempiere alla propria sorte di morte senza il benché minimo bisogno di affermarsi nella vita, nel sociale, di cercare "onore"? Come può sopportare di non avere neanche un ricordo della vita in cui si sia sentito assoluto protagonista? Ma forse, lo era anche la credenza di Jobs nel mito del successo, anzi secondo me lo era di più: come può un grande uomo che sia tale, un "visionario" dall'intelletto ineguagliabile che vede cose che gli altri neanche sognano, non accorgersi di una cosa elementare: che per ogni vincitore che vince ci sono almeno mille sconfitti che gemono di vergogna, e non provar lui stesso nemmeno un minimo di umano, se di grand'uomo si tratta, senso di colpa per l'intelligenza che gli è stata donata e che non ha meritato? Mi lascia basito la forza insensibile e grezza con cui abbia predicato il mito della vittoria, del trionfo, incurante dei molti al mondo a cui ciò è negato.

Non è una protesta. Non è comunismo. Non è una denuncia. Non è nostalgia del passato. E' la formulazione di una domanda:
che significa vincere? E vincere è davvero vincere?



Giovanni Peduto

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